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Non avete mai considerato la vita come una bellissima piéce teatrale dai contorni un pò buffi? Io sì.

Un giorno vuoi fare l’archeologa, il giorno dopo ti ritrovi a fare la psicologa. E anche di quelle che ama studiare, di continuo.

Da piccola ero abbastanza brava, mi trovavo a mio agio ovunque stessi e non avevo una materia preferita, credo di amarle tutto allo stesso modo, cosicchè elementari e medie sono state una passeggiata per me.

Non vale lo stesso per il liceo che fu (ed è ancora, mannaggia) uno dei miei periodi più oscuri, una sorta di medioevo personale (anche se ad oggi sappiamo bene quanto fosse prolifico quel periodo, culturalmente parlando, sebbene mantenga ancora una certa nomea oscurantista), dove ricordo tanti piagnistei e molte figuracce. Non amavo studiare…e neanche mi ci impegnavo, per dirla tutta. Apprezzo la mia onestà e so che molti si ritroveranno in questo caso che poi, a dirla tutta, è uno dei più comuni.

Sì, perché spesso mi capitano ragazzi e ragazze che non hanno scelto il loro indirizzo di studi (e nemmeno io l’avevo fatto, era più per convenienza che per altro) e non sanno come farselo piacere. Ma non si tratta di questo, perché, a posteriori, credo che fosse una delle scelte più azzeccate (sebbene non consapevole) della mia vita e, un giorno, vedremo perché.

Quando, dopo qualche mese alla ricerca della pietra (e della voglia) perduta, mi viene richiesta una consulenza, spesso si gira sempre attorno alle stesse esigenze e, non so perché, non so per come, si basano su luoghi comuni abbastanza (troppo) comuni perchè sia solo un caso.

Capita, infatti, che si cerchi di far da sè per quanto riguarda il metodo di studio, vuoi perché a scuola non si ha il tempo di apprenderne uno, sia perché ci sono tanti miti che riguardano la nostra capacità di apprendere e che, volenti o nolenti, sono difficili da sradicare (io sono la prima ad averci fatto i conti), senza però ottenere grandi risultati in termini di performance e quindi ci si rivolge ad un professionista.

Guardiamoli nello specifico, provando a riferirci anche a casi che si sono realmente presentati in studio o per i quali ho fatto consulenze.

Mito 1. Voler memorizzare ogni singola parola a tutti i costi.

Una delle situazioni più comuni è sicuramente quando si vuole memorizzare meccanicamente l’intero libro. Succede in due casi: o quando si è al primo esame del ciclo universitario o quando ci si presenta un esame molto difficile e quindi si ha paura che “sia tutto importante”. Dimentichiamo che le capacità mnemoniche da automa erano solo di SuperVicky (chi è troppo giovane, ahimè, non saprà di chi sto parlando…), perché noi siamo esseri umani con limitate capacità di memorizzazione. E quando lo ammetto, c’è sempre un sospiro, ma non so mai se sia una questione che consoli l’interlocutore o lo getti ancora di più nel panico, poiché se da una parte ci si sente sollevati dal fatto che “non abbiamo problemi di memorizzazione”, dall’altra ci disperiamo perché non possiamo aumentare le nostre capacità utilizzando una schedina SD. Tuttavia, vi è un modo per supplire alla cosiddetta economia cognitiva: dare un senso alle informazioni che memorizziamo.

Se il nostro cervello considera le info come poco importanti,

le cestina senza se e senza ma.

E’ importante, quindi, più che cercare di ripetere meccanicamente dei meri elenchi di informazioni sperando che la reiterazione possa imprimerli maggiormente nelle nostre fibre, comprendere ciò che stiamo leggendo perché esso possa essere considerato interessante dal nostro cervello, facendolo rientrare tra “le cose che sicuramente mi ricorderò perché sono state elaborate”. Una delle strategie più interessanti per la memorizzazione è quella di spiegare a qualcun altro che non conosce l’argomento ciò che abbiamo studiato, poiché la padronanza è uno degli obiettivi di apprendimento più avanzati (la memorizzazione meccanica, invece, è…basic!).

Mito 2. Passare l’intera vita sui libri.

Il mio livello di distrazione è leggendario. Mentre tutti avevano già cominciato a preparare l’esame di stato un anno prima, io ero entrata in panico perché non avevo cominciato a studiare neanche un mese prima dell’inizio della prima prova. La conoscenza dei propri tempi di apprendimento è fondamentale: capire quando cominciare con la prima lettura, poi dedicarsi alla seconda, continuare con la schematizzazione e il ripasso…Non troppo presto, non troppo tardi. Studiare è un processo dinamico e flessibile e, come tutte le cose, è assolutamente personale e spesso sono necessari diversi tentativi prima di capire come realmente funziona il proprio stile. Un altro luogo comune è pensare che più ore si passano sui libri, più si otterranno risultati.

Il criterio che denota la probabilità di successo ad una performance è data dalla qualità delle ore di studio.

Ovvio, no? Non tanto, visto che la maggior parte dei casi dedica più ore di studio di quante la materia realmente ne necessiti.

Mettendo da parte la mia esperienza personale, fatta da un metodo di studio avanzato e particolareggiato in quanto avevo trovato velocemente l’inghippo e la flessibilità tale da capire di quanto tempo avrei avuto bisogno per preparare un esame, mi sono ritrovata abbastanza spesso studenti che dicevano di dedicare molte ore allo studio. Alla richiesta di descrivere l’organizzazione di tali ore, era più il tempo passato a distrarsi e a non comprendere cosa ci fosse scritto sul libro che quello impegnato a comprendere ed elaborare le informazioni. Partendo dal presupposto che ognuno di noi possa dedicare allo studio il numero di ore che ritiene giusto per una buona performance, è anche necessario: organizzare le ore in modo tale che si prediliga la qualità dello studio; tenere in considerazione delle pause e dei momenti ricreativi perché il cervello possa ricaricarsi del glucosio che viene speso durante le attività cognitive.

Mito 3. Credere che le emozioni non abbiano alcun ruolo nell’apprendimento.

Ahia. Tasto dolente. Mi ricordo ancora che uno dei primi esami universitari fu biologia (sì, al primo anno di psicologia c’erano molti più esami scientifici di quanto la platea potesse immaginare, ecco perché la mia scelta non consapevole del liceo scientifico divenne una delle mie carte vincenti!) e io non avevo ancora abbastanza strumenti per capire che c’era differenza tra la materia e la persona che la insegnava. Avevo avuto una bruttissima esperienza con la mia docente del liceo e non amavo per niente la biologia, tanto che mi portavo il debito a fine anno, ogni anno. Una volta entrata all’università, non volevo che il mio ricordo negativo della persona coincidesse con un rifiuto della materia, anche perché stavolta potevo avere una seconda opportunità. Al primo appello, però, non riuscii a passare l’esame (non avevo ben capito gli esercizi di genetica) credendo che i tempi del liceo si stessero ripetendo come una sorta di condanna eterna. Al secondo appello, decisa a riprendermi la rivincita su una materia che di per sé mi piaceva pure ma che stava prendendo i contorni di una sfida personale, decisi di riprendere in mano gli esercizi di genetica e metterci tutto l’impegno possibile per passarlo.

Trenta. E fu uno dei traguardi più importanti della mia carriera. Più del voto in sé, ero felice di non essermi fatta incatenare dalla profezia che si autoavvera secondo la quale “Non sono e non sarò mai abbastanza brava in biologia”. Inutile dire che un giorno feci pure un incubo in cui ero convinta di aver sognato il giorno dell’appello e che quindi non l’avevo realmente sostenuto!

Una delle convinzioni più radicate negli studenti (esperti e meno esperti) è proprio quella di far coincidere il pensiero e la cosa, ovvero di non riuscire a distinguere l’antipatia/simpatia per una materia dalla necessità di studiarla per portare avanti un percorso.

Inoltre, la presenza di pensieri irrazionali circa le proprie capacità di studio e le prospettive future sono devastanti per chi si approccia per la prima volta al metodo di studio: attribuire alla mancanza di abilità l’insuccesso di un esame (e prevederlo in anticipo, oltretutto!) aumenta notevolmente il rischio di demotivazione e, nel peggiore dei casi, la probabilità di abbandonare il percorso di studi in anticipo.

Il lavoro più tosto, infatti, è proprio quello che riguarda la motivazione e le emozioni che ruotano attorno al metodo di studio: se non del tutto, in gran parte la nostra capacità di apprendere è data proprio dal desiderio e dalla curiosità nei confronti della materia. Avete mai fatto caso che quando una materia non ci piace tendiamo a procrastinare o a sopravvalutarla?

Spero che questi piccoli tips possano essere d’aiuto per riconoscere alcuni errori (comunissimi) e dedicarsi a capire quali siano, invece, le strategie cognitive ed emotive che possono rendere lo studio più creativo e divertente.

 

 

 

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