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Ho conosciuto Cristina qualche anno fa, per via della passione comune per i gioielli.

Poi, anche lei, si è ritrovata catapultata nel mondo degli ospedali e della malattia. Io avevo 28 anni, lei 25 e le stesse paure.

Più che un’ intervista, è il continuo di uno scambio avvenuto qualche tempo fa, mentre eravamo ancora nel pieno dell’ Odissea.

Oggi ci incontriamo in un chioschetto sul mare, mentre è in vacanza nella terra del suo fidanzato, Federico. Da qualche anno vivono e lavorano a Berlino, lei interprete, lui grafico.

Indossa un giubbino in jeans con una toppa artigianale di Sailor Moon, una delle mie paladine; parliamo della mia patente fresca fresca, della situazione lavorativa, di quanto mi manchi Trento.

Poi le racconto del mio piccolo progetto editoriale: voglio raccogliere le storie straordinarie di persone che incontro nella mia vita e dar loro voce per ispirare gli altri. Da quando ho cominciato a parlare di me, molte persone hanno riscoperto il loro mondo interiore. Pausa e si comincia.

Cristina, secondo la psicologia positiva, in situazioni stressanti come una malattia grave l’ atteggiamento aiuta a supportare il lavoro della terapia farmacologica e migliora la risposta immunitaria alle cure. Tu pensi che il tuo ottimismo abbia potuto, in qualche modo, aiutarti a reagire?

E’ impossibile rimanere sempre ottimisti. Ma è sicuramente molto importante avere la compagnia di persone che mi potessero aiutare. Ho cercato di affrontar tutto col sorriso perché è facile cadere nello sconforto, com’è accaduto alla maggior parte delle persone che ho conosciuto in ospedale Ho avuto la fortuna di avere Federico e mia mamma che cercavano di trovarmi delle cose su cui ridere, anche quando ho dovuto rasare i capelli (li ha persi per due volte, ndr). Quando li ho rasati per la seconda volta, ho chiesto a F. di farmi vedere come sarei stata con la cresta, su questo ci abbiamo fatto anche un video in time lapse.

Mi hanno ispirata due persone: la prima è Petra, una donna fortissima e con una famiglia che, nonostante la situazione drammatica, riusciva sempre ad affrontare la malattia con un sorriso. La seconda era Manina che, seppur condividessimo dolori e stanchezza causati dalla terapia, non perdeva mai l’occasione di spronarmi a camminare anche solo per prenderci una fetta di pizza al ristorante di fronte all’ospedale.

Le teorie dicono che, alla base, oltre alla voglia di condividere e rendersi utili per gli altri, ci sia anche una ricerca di senso e di accettazione della propria condizione…

Uno dei tabù più grandi della società è che se sei giovane, non puoi ammalarti, forse perché la maggior parte sono persone anziane. C’è uno stigma e una disinformazione su quello che è il cancro tra i giovani: non esiste e, se esiste, è perché hai una vita sregolata. Ho parlato della mia storia per cercare di sensibilizzare gli altri perché mi sono resa conto che i malati giovani sono molti di più di quanto si possa immaginare. Questa idea è evidente anche quando sono andata a farmi controllare.. Prima della diagnosi ufficiale mi avevano fatto due diagnosi sbagliate: la prima è che stessi soffrendo della polvere e degli sbalzi d’aria (avevo una tosse quasi cronica da alcuni mesi) così mi diedero degli antibiotici per qualche tempo, ma non facevano altro che coprire i veri sintomi; la seconda è che probabilmente stavo soffrendo di tiroide. 

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Alla fine, il 29 marzo 2016, mentre ero a lavoro mi accorsi che avevo difficoltà nella deglutizione e nella respirazione così, su consiglio di un collega, mi recai dal suo medico che mi indicò di andare immediatamente in ospedale; aveva, infatti, realizzato che il bozzo che mi portavo sul collo da qualche mese non era altro che un linfoma di Hodgkin, molto comune tra i giovani, eppur non era stato diagnosticato a prima vista, sebbene stesse schiacciando cuore e polmoni. Dopo una notte in osservazione, sono stata spostata in oncologia.

La prima cosa che ho pensato è stata “Ok, sto morendo”, proprio perché la disinformazione ti porta a pensare che se hai un cancro, è naturale che tu debba morire, mentre ho scoperto successivamente che sì, era maligno ma curabile.

La cosa che mi ha frustrato di più era non sapere con chi prendermela: ero una con una vita abbastanza noiosa, niente fumo, niente alcool. Se fosse stata colpa mia, almeno me la sarei potuta prendere con me stessa, così da poter evitare, anche in futuro, comportamenti dannosi. Il non poter attribuire a nessuno la causa di questo era fastidioso. In più non ne potevo parlare con nessuno, mi vergognavo un po’ ma è anche per questo che ho scelto di parlarne: non puoi tenere nascosta una cosa così naturale.

Quando hai cominciato a parlarne, hai scelto di farlo tramite i social. Hai raccontato il decorso della tua malattia attraverso video e foto, con l’aiuto di Federico che ti è sempre stato accanto anche in questa impresa di sensibilizzazione, sulla scia di altre ragazze come te…Com’è stata la risposta da parte dei tuoi followers?

Ho ricevuto moltissimi messaggi positivi di persone che non avevo mai conosciuto o che non sentivo da anni, è stato molto bello. Altre persone, invece, sono sparite forse perché non sapevano come gestire il dolore. Non è contagioso.

Federico le sta sempre accanto: lei lo guarda e gli lascia la parola. E’ stato presente dall’inizio alla fine e dico loro che la loro coppia mi ricorda la mia, perché ho avuto la conferma di un rapporto solido proprio nel momento in cui avevo paura di perdere tutto. Conosco quella sensazione di impotenza che anche il mio compagno esprimeva, lui che avrebbe voluto prendersi sulle spalle la mia sofferenza fisica per non vedermi più soffrire così tanto.

“Mi dispiace non averle dato una mano come avrei voluto”, dice, “ma non potevo far altro che rimanere positivo e pensare sempre che l’unica cosa da fare era vivere (la malattia) senza l’obiettivo di sconfiggerla a lungo termine, ma cercare di combatterla giorno dopo giorno: non dovevamo pensarla come una maratona, ma come una quotidiana corsa ad ostacoli”.

“Le persone pensano sempre al dolore fisico del malato”, continua Cristina, “ ma dimenticano i caregivers, quelli che si prendono cura di te. Anche loro sentono la tua sofferenza e io ne sentivo il peso”.

Ridono, mentre cerco di scrivere il più veloce possibile, Cristina è un fiume in piena e riesce ad anticipare benissimo quelle che sono le mie intenzioni narrative.

“Ci sta facendo terapia di coppia”, dice Cristina. Io sorrido, sono proprio belli. Hanno passato l’ inferno e sono qui a raccontarlo a me.  

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Continuiamo a parlare del dopo, di quello che succede una volta che sei guarita, che ti dicono che puoi tornare ad una vita normale. Le chiedo per capire se, alla base dell’ esperienza della malattia, ci siano gli stessi meccanismi adattivi e di ricerca di senso.

Quando stavo male, mi dicevo sempre che, quando sarei guarita, avrei fatto tutto quello che non avevo mai fatto. Avevo una concezione comune della felicità. Pensi di essere felice quando hai un lavoro, quando hai soldi, quando hai una relazione stabile, poi crolla tutto e ti chiedi di nuovo cosa sia. Quando ero malata ero disperata, piangevo dicendo che io ero felice, che non mi meritavo questo e non c’era una fine. Ho avuto pensieri suicidi perché non riuscivo a sopportare l’ indefinitezza della malattia, perché non sopportavo il fatto di non poter avere più la vita di prima.

Quando la malattia finisce, non è realmente finita. La malattia continua.

“Diventi più forte”, esclama Federico.

No, io non so cosa sia successo a Cristina, ma io sono diventata più fragile. Prima mi arrabbiavo per tutto: ora cerco la pace. Ho ancora più paura di prima di morire e ho terrore delle relazioni. E’ come se cercassi un livello di profondità nelle cose, negli affetti, in tutto che prima non avevo. Ti arrabbi di meno, cerchi di goderti di più la vita. Mi chiedo se era così necessario passare attraverso la malattia per capire se realmente ero così forte, fatto sta che avevo paura di tornare alla vita normale perché significava ricominciare da zero. Sei cambiato, perché ci devi convivere con questo fardello. E parlarne aiuta a dare un senso alla cosa.

Cristina annuisce, c’è un tacito consenso su questa mia affermazione.

Le chiedo, allora, cosa c’è nel suo dopo…

Cerco di avere ancora fiducia nel mio corpo. Mi sono ammalata senza avere sintomi evidenti così, a volte, passo il tempo a scansionare eventuali cambiamenti. Ti focalizzi su quelli per paura che riappaia. (Cristina ha avuto due ricadute dopo la remissione, ndr).

E’ il tempo di salutarci, ma voglio ancora sapere se, in qualche modo, deve ringraziare questo periodo…

“Facevo una vita di corsa, ero stressata perché correvo tantissimo per il lavoro: mi sono fermata un attimo e ho rivalutato le mie priorità. Ho vissuto una brutta giornata? Bene, è stata brutta ma è passata. Sono grata di poter essere qua a bere cappuccino e guardare il mare (Cristina e Federico vivono a Berlino,ndr). Ho scoperto più passioni, come quella per i viaggi e per la pole dance…[Ridono]

E’ nata così, quando ero ancora sotto terapia, ero allettata da un mese, avevo qualche chilo in più per via del cortisone e ho pensato…Ma perché devo aspettare?

Ho ricalibrato la questione sull’ aspetto fisico, per esempio. Prima mi vestivo tutta di nero perché così passavo inosservata…

“Ora è più colorata, si sente più self confident”, aggiunge Federico, mentre la guarda con le stelle negli occhi.

L’ intervista è finita, dobbiamo solo scattare qualche foto, prima da sola, poi insieme, perché loro sono proprio belli.

Sullo sfondo, la Sella del Diavolo ad incorniciare questa storia di vittoria, di supporto, di completezza.  

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Siete perfetti!, dico loro, e mi abbracciano.

Cristina e Federico stanno portando avanti un progetto bellissimo per raccontare la quotidianità di una coppia moderna che sta ricostruendo la propria strada dopo un’ esperienza dolorosa come il cancro in età giovanile, tra gli alti e bassi della società di oggi.

Potete seguirli sulla loro pagina Facebook https://www.facebook.com/thebobinis/

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