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“La buona notizia è che non solo l’ottimismo ci aiuta a raggiungere i nostri obiettivi ma che è anche una risorsa che possiamo attualmente potenziare”

(Il ruolo dell’ottimismo, D. Monzani, in Psicologia Positiva, n°24/2012)

Gran parte della letteratura e degli strumenti preventivi e riabilitativi dell’apprendimento pongono l’enfasi sull’aspetto cognitivo delle difficoltà scolastiche, mettendo in secondo piano le componenti emotive che, se trascurate a lungo, provocano disagi in età adolescenziale e adulta, creando una frattura relazionale tra il bambino e il suo (o i suoi) caregiver(s).

Mi piace pensare che l’ obiettivo dell’ educazione possa essere quello di superare la visione di un rapporto unilaterale tra docente (che sia un genitore o un insegnante) e il discente, spesso raffigurato come mero contenitore di informazioni che accetta, suo malgrado, la passività del suo ruolo.

Pensare alle capacità (spesso poco valorizzate o addirittura nascoste poiché non conformi all’apprendimento tradizionale) del bambino significa essere creativi, essere empatici, ragionare come un bambino. Quali sono queste capacità? Davvero le conosciamo? Abbiamo mai chiesto “Cosa ti piace fare?” o “Come potresti risolvere questo problema?”. Una volta scoperte, dobbiamo stimolarle attraverso la comunicazione positiva, una visione ottimista della vita (presente e futura), una maggiore dose di fiducia, grazie al supporto, sin dalla tenera età, della famiglia e degli “adulti significativi”.

Prenditi un attimo e prova a focalizzarti su quanto sia impegnativa la giornata di un bambino con difficoltà di apprendimento: problemi di etichettamento, lentezza nell’ acquisizione della scrittura e della lettura, una realtà che non lo sostiene e non valorizza la sua ricchezza interiore e cognitiva. Avere una difficoltà (o un disturbo) dell’ apprendimento non ha solo un risvolto in termini di performances, ma diventa una cupola entro la quale la positività sembra non poter penetrare.

Come posso io adulto, io educatore, io professionista aiutarlo a credere in sé stesso?

Un interessante modello che cerca di comprendere come mettere in relazione demotivazione scolastica e bassa autostima con l’apprendimento è quello di Borkowsky, Carr, Rellinger e Pressley (1990) (si veda anche Moè, De Beni e Cornoldi, 2007). Secondo questi autori, i numerosi fallimenti a cui i bambini con problemi di natura emotivo-relazionale andrebbero incontro nella loro interazione con l’ambiente determinerebbero lo sviluppo di un senso di impotenza appresa o, al contrario, di un senso di illimitata capacità di affrontare le situazioni, entrambi ovviamente non corrispondenti alla realtà. Non è semplice, in molti casi, facilitare lo sviluppo di una relazione buona e fondamentale del piano d’azione, la cornice in cui mettere dentro tante belle cose di abilitazione e di didattica, più o meno speciale. Si deve cercare dunque di facilitare lo stabilizzarsi di un «legame» sufficientemente buono perchè il bambino DSA ha bisogno di essere riconosciuto in tutta la sua ricchezza, con la sua personalità, le sue passioni, non come un alunno che trascura i suoi doveri. È fondamentale una decolpevolizzazione, per togliere il marchio della cattiva volontà e per disporsi sul piano del comprendere i reali bisogni di apprendimento. Sentirsi accusati ingiustamente di pigrizia e svogliatezza mentre invece non si riesce, pur sforzandosi, incide molto negativamente sulla relazione. Se tale relazione è armoniosa, sintonizzata sulla frequenza dell’ Altro, ecco che l’autostima aumenta e,  con essa, l’autoefficacia, la motivazione intrinseca, la curiosità e gli interessi, la ricerca di obiettivi sempre più avanzati, ecc.

Si tratta di stimolare la molecola del cuore, come dice Dario Ianes, esperto nel settore della didattica inclusiva…

Piccoli ma significativi passi possono essere compiuti ogni giorno a scuola o a casa, perché la sinergia tra i sistemi di appartenenza del bambino sia tale da supportare il suo cammino.

Incentivare la resilienza, le strategie adattive, la creatività secondo il modello dell’ empowerment relazionale di Pintrich (1999), è possibile se:

  • Promuoviamo l’ apprendimento con gli altri (ad esempio, considerando i gruppi di lavoro dove i bambini scambiano le loro skills e lavorano per un obiettivo comune, come nella peer education)
  • Diamo una valutazione sulla performance (valutazione che dev’ essere positiva e costruttiva, al fine di rinforzare la modalità di apprendimento più funzionale al bambino)
  • Promuoviamo la capacità metacognitiva.

L’ ultimo punto è sicuramente quello più interessante: il bambino impara a gestire il proprio apprendimento, automotivandosi e autorinforzando le sue peculiarità, dando valore al suo impegno e rendendosi autonomo.

E’ stato riscontrato, infatti, che all’ aumentare del senso di autoefficacia e controllo sulla propria vita, i bambini DSA con stile cognitivo ottimista, hanno più probabilità di riprendersi da un insuccesso in minor tempo, considerando il fallimento come un’ opportunità per imparare nuove strategie ed incrementare il proprio impegno per raggiungere il loro obiettivo finale, con un’ incidenza minore di disturbi dell’ umore rispetto ai bambini DSA che presentano uno stile cognitivo pessimista, spesso influenzato da uno stile genitoriale della stessa connotazione.

Torniamo bambini, per un momento. Mettiamo da parte la necessità di dare un’ etichetta diagnostica. Riflettiamo un attimo su quali parole possono essere utili per andare avanti.

Abbiamo una grande responsabilità: ciò che esprimiamo diventa, a tutti gli effetti, una profezia che si autoavvera che influenza la percezione che i bambini avranno di sé e, tale percezione, non si riflette solo sul piano formativo, ma è globalizzante, distruttiva, a lungo termine.

Vogliamo bambini coraggiosi, che sappiano ascoltare il loro mondo interiore ed esprimerlo con le modalità che preferiscono, che sappiano rompere le regole e produrre cambiamento.

 

 

 

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