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Mia madre dice che, sin da piccola, mi sono sempre svegliata di buonumore.

Dice anche che, quando ero in compagnia, ero solita intrattenere le persone, come se, ovunque io andassi, ci fosse sempre festa.

Quello che mia madre racconta di me, di come ero, di come pensavo, di come agivo quando ero piccola fa parte di quello che, fondamentalmente, penso di me.

Tornando ai giorni nostri, mentre la maggior parte delle persone non si stupisce del fatto di svegliarsi con la luna storta e di non volersi alzare dal letto per cominciare la giornata, io lo considero un qualcosa di eccezionale, “perché io mi sono sempre alzata di buonumore”.

Ma andiamo per piccoli passi…

Quando parlo di pensiero positivo, sto parlando di una modalità, di uno stile cognitivo che caratterizza le persone ottimiste.

Mi spiego meglio.

Il tuo, il mio modo di pensiero ha una connotazione negativa (pessimista) o positiva (ottimista) che è globale, ovvero, in qualsiasi situazione (input) io mi possa trovare, il mio modo di pensare mi aiuterà a focalizzarmi sugli aspetti di debolezza (nel caso dello stile cognitivo pessimista) o di forza di una situazione (nel caso dello stile cognitivo ottimista), influenzando il mio modo di re-agire (output) alla situazione stessa.

Ciò è stato teorizzato da Martin Seligman (sì, sempre lui!) che, elencando le caratteristiche cognitive dei pessimisti e degli ottimisti, evidenziò in primis come l’uno o l’altro stile fosse di importanza vitale per la sopravvivenza (emotiva) delle persone.

Ad esso, è correlato il concetto di locus of control (la “stazione di comando” interno o esterno dove esercitiamo il controllo delle azioni sulla realtà), facente parte dello stile di attribuzione soggettivo (che spesso viene utilizzato in maniera interscambiabile con lo stile cognitivo di Seligman), il quale indica la capacità di ognuno di attribuire la causa (interna o esterna) degli eventi della realtà in cui vive.

Tutti questi termini, tutte queste teorie, chiudono il cerchio della domanda “Ottimisti si nasce o si diventa”?

La risposta è nel mezzo.

Lo stile cognitivo si apprende ma, per poter essere appreso, dobbiamo anche ricostruire da chi è nato e spesso, tale origine, si perde nella notte dei tempi.

“Ah, vuole mettere d’accordo tutti, dottoressa?”, mi dirai.

Sono per comprendere tutte le risposte e rivelare che gli studi trattano della predisposizione di ognuno verso l’ottimismo (per quanto siamo, da quando esiste l’essere umano sulla terra, come mi piace ricordare, settati verso un “cervello pessimista e autodistruttivo”) tanto quanto quelli che evidenziano come crescere in un ambiente “positivo” sia un toccasana per lo sviluppo ed il benessere psicoemotivo di ogni essere umano.

Sebbene gli studi scientifici elenchino diverse figure e diversi ambienti dove, sin dalla più tenera età, tutti noi abbiamo avuto esperienze di apprendimento positivo, io voglio tornare, per qualche riga ancora, alla mia mamma.

E’ vero che il suo modo di raccontarmi, di descrivermi, di rappresentarmi (soprattutto agli occhi degli altri adulti significativi) sia stato fondamentale per la mia crescita emotiva, è altresì vero che anche il suo modo di spiegarmi la realtà sia di cruciale importanza, soprattutto per la mia autostima.

Il modo con il quale i nostri genitori hanno saputo descrivere le cause degli eventi del mondo in cui viviamo, dei comportamenti delle persone, ma anche dei fatti accidentali nei quali si sono e ci siamo imbattuti nel corso della nostra vita, ha fatto sì che oggi possiamo definirci ottimisti o pessimisti (in quale percentuale lo dirò prossimamente!).

La distanza tra il “si nasce” e “si diventa” è quindi fatto di pochissimi secondi entro in quali siamo passati dalla vita perinatale alla vita alla luce del sole.

Pensa, infatti, a quanto i tuoi genitori siano stati capaci di spiegarti perché, a scuola, la tua maestra ti abbia messo un brutto voto: a chi è stata data “la colpa”? (provaci, sono sicura che non ti sarà difficile ricordare un episodio e, se ti va, scrivilo nei commenti)

Nel caso di un brutto voto, le cause potevano essere interne (mancanza di impegno, mancanza di preparazione, ecc.) o esterne (compito difficile, fortuna, caso, insegnante “che ce l’ha contro di me”, ecc.); nel caso di un bel voto, potevano essere ugualmente interne (“Sono stato bravissimo”, “mi sono preparato per bene”) o esterne (“la maestra mi vuole bene e mi ha dato il compito più facile”, “è stato un caso di fortuna”). Questa modalità di attribuzione vale anche nel caso in cui avessi preso un bel voto!

Spiegare ad ogni bambino quale potere abbia di agire sulla realtà che lo circonda determina la sua riuscita in termini di autostima, autoefficacia ed autoconsapevolezza. Un bambino che, di fronte ad un brutto voto, riesca ad attribuirne la causa alla sua mancanza di impegno, saprà correre ai ripari e a non danneggiare la sua percezione di sé, valutando correttamente  quanto e come utilizzare la propria forza, la propria preparazione per il compito successivo (= bambino ottimista).

Al contrario, se, come adulti, non lavoriamo prima di tutto su noi stessi, agendo sulla corretta attribuzione della cause e riconoscendo che ogni situazione è a sé, senza colpevolizzare globalmente i piccoli (“Ecco, sei un disastro totale!”) e lasciando che anche loro si dipingano così (spesso per il resto della loro vita), avremo dei bambini pessimisti, con poca motivazione, attenti più al riconoscimento materiale (il voto o il regalo a fine scuola) che alla propria soddisfazione personale. Difficoltà che poi si protraggono e si riflettono anche nella vita adulta.

Io ripenso sempre ai miei genitori che, in ogni fase della mia vita, soprattutto in quelle più ostiche come il traguardo del master o l’ inizio della libera professione, non hanno mai smesso di dire, anche a 31 anni suonati, “Certo che ce la farai”.

Pensa a quanto questa certezza, scritta su un bigliettino di carta quando pensi, quando senti, quando hai la sicurezza del risultato contrario, sia di vitale importanza perché il tuo sogno, invece, si avveri.

Per approfondire:

Julian B. Rotter. “Generalized expectancies for internal versus external control of reinforcement.” Psychological Monographs: General and Applied 80 (1966): 1–28.

Weiner, Bernard. (1972). Attribution theory, achievement motivation, and the educational process.  Review of Educational Research, 42(2), 203-215.

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