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Martin Seligman.

Sono sicura che questo nome non ti dirà granché, come accadde la prima volta a me.

 “E’ quel Seligman”, esclamai quando mi capitò tra le mani il suo libro “Imparare l’ottimismo”.

E me lo ricordavo bene, altroché, il Seligman che permeava il libro di psicologia generale al primo anno dell’Università, lui e la sua teoria dell’ impotenza appresa.

Era come riconoscere un posto familiare, un sogno già fatto, un volto lontano…

Classe 1942, Martin Seligman fu un pionere della psicologia sperimentale. Durante i suoi studi, scoprì che le persone sottoposte continuamente a situazioni nelle quali credono di non avere alcun potere d’azione, tendevano a sviluppare la cosiddetta impotenza appresa, impotenza che si estendeva e si ripeteva anche oltre l’evento sperimentato.

Le persone sviluppavano anche altre risposte che influenzavano negativamente la loro quotidianità, come:

  1. la tendenza ad incolpare se stessi per gli accadimenti avversi
  2. il considerare queste condizioni durature nel tempo
  3. la convinzione che il loro comportamento inadeguato avrebbe potuto portarli, in futuro, verso ulteriori fallimenti.

Ma questo avvenne per tutti i soggetti studiati?

No, perché Seligman notò che, tra i pessimisti, vi era anche un’altra categoria di soggetti, quelli che, nonostante tutto, continuavano a reagire alle condizioni avverse degli esperimenti.

Perché non si lasciavano abbattere dalle difficoltà dell’ esperimento?

Perché non sviluppavano status depressivi e apatia o cercavano di evitare la situazione?

In poche parole, qual era la capacità che rendeva le persone più resistenti e impediva loro di sviluppare l’impotenza appresa?

L’ ottimismo.

Erano arrivate le belle notizie, nel mondo della psicologia.

Hai presente quando, da tempo, sei alla ricerca di qualcosa che ti aiuti ad esprimerti, qualcosa che sai che esiste ma non sa dove andare a trovarla, qualcosa che ti faccia dire “Lo sapevo, ne ero sicura!”?

Parole come ottimismo, pensiero positivo, resilienza, cambiamento mi erano sempre parse, sino a quel momento, dei mantra, delle litanie per l’autosuggestione, prive di corpo e validità.

Scattava in me una sorta di reattanza psicologica al solo sentirle.

E invece, nel mondo (e soprattutto, nella mia formazione), avevano già fatto capolino tempo addietro.

Di cosa parlava la psicologia positiva, allora?

Perché mi pareva illuminante, rivoluzionaria?

Perché

Se l’attenzione della psicologia tradizionale fu, agli inizi della sua storia, rivolta alla cura e al trattamento delle patologie mentali, allo studio della malattia, del trauma e del deficit, negli ultimi decenni, ha effettuato un cambio di rotta, rivolgendosi maggiormente alla promozione del cambiamento sociale, la soluzione dei problemi nei rapporti umani e l’emancipazione degli individui, con lo scopo di favorirne il benessere personale.

(Definizione ufficiale dell’IFSW, International Federation of Social Workers)

Era nato un movimento, quello della psicologia positiva, capace di parlare al positivo: un movimento concentrato sulle emozioni positive, sulle caratteristiche positive intrinseche ad ogni essere umano (come le virtù personali e i punti di forza) ed, infine, sullo studio delle istituzioni positive come la scuola e la famiglia (Seligman, 2002).

Come psicologa, non dovevo solo pensare alla malattia, alla cura, al disturbo, al sintomo, ma potevo finalmente chiedermi come rendere la vita degna di essere vissuta, proprio come sosteneva Seligman, aiutando le persone a scoprire risorse, talenti e superpoteri.

La felicità esisteva, dunque.

Potevo studiarla, potevo sperimentarla e, più di tutto, potevo insegnarla e trasmetterla.

Come essere umano, invece, era iniziato il mio viaggio verso terre lontane e bellissime, attraverso mari di conoscenza, riflessione, consapevolezza e, soprattutto, condivisione.

La felicità è reale solo se condivisa.

(Chris McCandless)

 

Bibliografia:

Imparare l’ ottimismo, M. Seligman, Ed. Giunti., 2013

Manuale di psicologia positiva, A. Laudadio, S. Mancuso, Ed. FrancoAngeli, 2017

 

 

 

 

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